Il poeta Ovidio scriveva “non posso vivere né con te, né senza di te”. Quando lessi per la prima volta questa frase mi immaginai una donna imprigionata all’interno di una membrana insonorizzata e trasparente: tutti, al di fuori, potevano vederla, ma nessuno poteva sentirla. Peggio ancora, mi immaginai che questi suoni e queste urla, emessi dalla donna, venissero intrappolati dalla membrana e risuonassero dentro di essa in maniera continua, come echi di montagna prodotti sincronicamente che invece che allontanarsi e affievolirsi si sovrapponevano diventando, via via, sempre più incessanti. Una donna che provava disagio e dolore nel vivere con un’altra persona; una donna che non si percepiva più come tale nel momento di allontanamento da un’altra persona. Il mio immaginario aveva prodotto questo risultato, ma il mio emisfero sinistro doveva, assolutamente, rispondere a delle domande: dov’è sfumata l’identità di questa donna? Qual è il confine tra lei e l’altro da lei? E’ vittima o autrice di questo gioco di forze così disarmante? Una donna imprigionata, intrappolata, accompagnata da un sottile senso d’insicurezza e logorata nel tentativo di cambiare se stessa a tutti i costi per adeguarsi a cliché che non la riguardavano. Chiesi un parere, circa questa immagine, alla società e ottenni delle risposte che mi spiazzarono. Essa riteneva normalepensare a una donna in questo stato.
Dunque, sacrificio, preoccupazione, mettersi in secondo piano per gli altri ed elidersi per qualcuno erano sostantivi e verbi che il senso comune associava solo al sesso femminile perché è questo ciò che ci si aspetta da una vera donna, da una donna che, in realtà, ama troppo. Troppo? Si, troppo, perché il disamore per sé, la sfiducia nel proprio valore, nelle proprie capacità e il continuo adattamento dei propri bisogni a quelli degli alti procurano sofferenza e non gioia e creano dipendenza affettiva e non amore. Di fronte a ciò il senso comune, però, non cedette e ritenne che la via d’uscita fosse la semplicepresa di consapevolezza. Peccato che incontrare la propria dipendenza relazionale non porti con sé nulla di semplice perché si tratta di un percorso irto di ostacoli. Significa guardarsi dentro a fondo, scoprire che non si sta vivendo la vita che si desidera, cambiare comportamenti e pensieri avvilenti che ormai appartengono alla mente e scontrarsi con stereotipi sociali.
Continua a formarsi in me quell’immagine, quella donna che vede e percepisce il problema, ma, al contempo, incontra la resistenza a cambiare, ad allontanarsi da situazioni conosciute e ad opporsi al risucchio delle richieste degli altri. Una donna che non trova più spazio per sé perché in preda alla paura di non essere amata: paura che la porta ad accettare qualsiasi cosa dell’altro purché questo altro la rassicuri. Da qui l’inizio di una degradazione che può solo peggiorare. Questa donna è diventata infermiera, madre, sorella, nonna, serva, amante, confidente, consolatrice, domestica e aiutante. Ha perso la sua identità per acquistare tutte queste. Il senso comune, a questo punto, dette la soluzione al problema. Quella donna è debole perché per ora tutto questo ha riguardato solo il sesso femminile e non gli uomini, come la società aveva predetto dall’inizio. In realtà anche gli uomini possono sviluppare una dipendenza affettiva e, aspetto forse più importante, l’altro di cui si parla non necessariamente è il partner, ma una figura X infinita che può riguardare la madre, il padre, un figlio, una sorella, un fratello, un amico, un’amica e molto altro ancora. Però una parte di verità è presente in quelle credenze sociali. Questi discorsi riguardano, prevalentemente, la donna, quella donna della mia immagine, noi, perché le donne, per ragioni storiche, sono più portate a “pensare male di sé”. Ci hanno insegnato nel corso della storia a pensarci deboli, fragili, dipendenti per natura, bisognose di un altro. Molti di questi aspetti ancora vigono nel nostro presente, altri sono finiti nell’inconscio femminile. Quindi se noi stesse pensiamo tutto il male possibile, vogliamo qualcuno che ci faccia sentire migliori, ma è proprio qui l’errore che commettiamo. Cercare qualcuno con cui sviluppare una relazione, senza aver sviluppato una relazione con se stesse ci fa ricadere nel contenitore costruito dal senso comune per noi. Amare è bellissimo, e la parola amore si può connotare in vari modi e sensi, ma, di solito, se ne dimentica sempre uno. Impariamo ad amare noi stesse per poter trasformare la frase di Ovidio in “Posso vivere con te e senza di te”. Io esisto!
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